di Ilaria Romeo
responsabile Archivio storico CGIL nazionale
Nata a Torino il 29 luglio del 1900, nel Pci dalla sua nascita nel 1921, Teresa Noce – Estella, futura e conosciutissima segretaria dei tessili della FIOT- espatria nel 1926 con il marito Luigi Longo prima a Mosca, poi in Francia. Nel 1936 – dopo aver fondato a Parigi con Xenia Sereni il mensile Noi Donne – è con Longo in Spagna, dove cura la pubblicazione de Il volontario della libertà, giornale degli italiani nelle Brigate internazionali. Rientrata in Francia allo scoppio della Seconda guerra mondiale, è internata nel campo di Rieucros. Quando, per intervento dei sovietici, è liberata e dovrebbe ricongiungersi ai figli a Mosca, per il cambiamento delle alleanze militari non può farlo. Resta così a Marsiglia, dove, per conto del Partito comunista francese, dirige il Moi (l’organizzazione degli operai immigrati) e si impegna nella lotta armata condotta contro i tedeschi e i collaborazionisti.
Durante una missione a Parigi all’inizio del 1943, è arrestata: viene deportata, prima nel lager di Ravensbrück, poi in Cecoslovacchia, dove a Holleischen le toccano i lavori forzati in una fabbrica di munizioni.
Qui Estella celebra l’8 marzo 1945: “Per l’8 marzo – racconta nel volume autobiografico Rivoluzionaria professionale – non potevamo organizzare una festa perché eravamo ormai troppo deboli e affamate, quindi decidemmo di tenere una conferenza. Al campo, le politiche che conoscevano un po’ di storia del movimento operaio internazionale erano una minoranza. Molte erano però coloro che avevano fatto parte della Resistenza, lavorando e sacrificandosi per la libertà. La conferenza doveva spiegare alle une e ricordare alle altre che donne di tutti i Paesi e in tutti i secoli avevano lottato per la libertà. Ma anche una semplice conferenza non era tanto facile da preparare. Anzitutto, chi doveva parlare? E che cosa avrebbe detto? Anche se la riunione veniva organizzata nel nostro blocco, bisognava cercare di farvi partecipare almeno qualche deportata degli altri blocchi. Inoltre bisognava dire cose che non interessassero solo una minoranza, ma gran parte delle donne di tutto il campo”.
Oltre alle comuniste e alle socialiste, nel campo erano presenti anche donne cattoliche ed ebree: “Vi erano operaie che conoscevano la lotta di classe – scrive Teresa Noce -, ma anche contadine e proprietarie di terre; vi erano impiegate, funzionarie dello Stato, ma vi erano anche capitaliste come la signora Michelin (fabbrica di pneumatici) e figlie di poliziotti. L’incarico di tenere la conferenza fu dato a me. Le compagne dissero che ero la più indicata, nonostante le precarie condizioni di salute, ed essendo stata esonerata dal lavoro, avrei avuto anche più possibilità di prepararmi. Dapprima le compagne chiedevano una conferenza solo per noi, cioè se non proprio per le comuniste, riservata almeno alle politiche. Mi opposi risolutamente; se volevamo fare una conferenza per 1’8 marzo, questa doveva interessare tutte le deportate, fossero o no politiche. Era giusto parlare delle donne di tutti o almeno di molti Paesi, e non solo delle francesi: vi erano state eroine polacche, inglesi, russe, spagnole, italiane, ebree, americane. Non solo le comuniste o le resistenti era giusto ricordare, ma anche le patriote di tutti i secoli, quelle donne che ovunque avevano lottato, in un modo o nell’altro, per il progresso e la libertà”.
<<Quando comunicai la mia idea alle compagne – ricorda Estella – queste mi rivolsero sguardi di commiserazione, pensando che fossi impazzita. Mi chiesero dove avrei preso il materiale per una conferenza simile. Me lo sarei succhiato dal dito? Avevano ragione, la cosa non era facile. Ma potevo farmi aiutare. Tra noi vi erano donne che avevano studiato, che conoscevano la storia del proprio Paese e qualche scorcio della storia del resto del mondo. Anche coloro che avevano ricevuto un’educazione scolastica e borghese, potevano aiutarmi. Era poi compito mio estrarre, dalle cose che esse sapevano e che mi avrebbero detto, la lezione politica e di classe che avrebbe dato un senso alla nostra conferenza per 1’8 marzo. Mi dettero via libera. E cominciai a rivolgere la parola a molte deportate con cui, fino ad allora, avevo avuto scarsi rapporti, come la signora Michelin che si trovava al campo, pare, per una questione di valuta concernente prodotti venduti ai tedeschi. Con prudenza, dissi a queste deportate che noi compagne volevamo commemorare 1’8 marzo, la giornata internazionale delle donne di tutto il mondo, parlando proprio di quello che le donne di tutto il mondo avevano fatto nei secoli. Non tutte le deportate conoscevano certi avvenimenti: e noi volevamo parlare loro di Lucrezia e di Giovanna d’Arco, la Pulzella di Orleans; di Louise Michel, la comunarda e di madame Curie, la fisica franco-polacca; di Emmeline Pankhurst, la suffragetta inglese e di sua figlia Sylvia; della Pasionaria spagnola, di Nadeizda Krupskaja, la moglie di Lenin, di Rosa Luxemburg, tedesca.
Era nostra intenzione ricordare quello che le donne di tutto il mondo avevano fatto per la libertà e il progresso, lottando e combattendo, e spesso pagando di persona, come era accaduto a noi nella lotta contro i nazisti. Era importante che tutte sapessero che in ogni secolo vi erano state donne che avevano lottato per difendere il proprio paese o la propria religione, il pane e il lavoro per tutti, la pace, la libertà da ogni oppressione, contro la tirannia e lo sfruttamento. Perché dovevamo parlare, oltre che di Lucrezia e di Giovanna d’Arco, anche delle serve della gleba insorte con la jacquerie del 1358 e delle calzettaie della Rivoluzione francese, delle comunarde di Parigi e delle setaiole di Lione, delle suffragette inglesi e delle martiri di Chicago, delle rivoluzionarie russe e delle insorte di Torino, delle scioperanti contro i padroni e contro i fascisti.
Trovai più aiuto di quanto avessi sperato. Tutte volevano dirmi qualche cosa, del proprio paese o di persone conosciute o di episodi di lotta o di quello che ricordavano delle lezioni di scuola: e con più apertura mentale e meno conformismo di quanto mi attendessi. La permanenza al campo, la lezione delle sofferenze sopportate in comune, forse non erano state inutili. Poteva anche essere che, appena libere, quelle donne tornassero a vivere come prima, ma era molto più probabile, in ognuna, qualche cambiamento. Intanto il mio lavoro di preparazione aveva già avuto questo risultato: tutte si interessavano dell’8 marzo, tutte aspettavano la conferenza, tutte volevano ascoltarla. E la cosa più sorprendente fu che tutte seppero mantenere il segreto e nessuna «aspirina», nessuna kapò, venne a sapere quello che stavamo preparando. Tenemmo la conferenza la sera dell’8 marzo 1945, appena suonato il silenzio ed uscite le «aspirine» e le kapò. Salii sul giaciglio più alto di un castello posto in mezzo al blocco, mentre le deportate si affollavano sugli altri pagliericci, e incominciai lì il mio discorso. Ogni tanto, mentre parlavo, si apriva silenziosamente la porta e facevano capolino deportate degli altri blocchi. Con la scusa di andare al gabinetto, erano riuscite a sgusciare fuori e venivano anch’esse a sentire la conferenza sull’8 marzo. Parlai a lungo delle donne di tutto il mondo come mi ero proposta.
Parlai dell’esempio, tramandatoci nei secoli, di chi aveva lottato per la difesa del proprio paese e per la libertà dei popoli, di coloro che si erano sacrificate per la pace e per la rivoluzione, che avevano dato la vita o avevano perso la libertà per difendere le compagne contro lo sfruttamento, la miseria, la schiavitù. Parlai delle sante e delle schiave, delle operaie e delle contadine, delle intellettuali e delle scienziate, delle analfabete e delle artiste. Continuai a parlare finché caddi stremata sul giaciglio che mi aveva ospitata.>>