Luglio 2017 | News
L’orario di lavoro è di pertinenza delle parti sociali.
Domenica 2 luglio i lavoratori della Gelco s.r.l. di Castelnuovo Vomano hanno scioperato compatti contro la decisione unilaterale dell’azienda, presa nonostante il “no” dell’assemblea dei lavoratori, di instaurare il ciclo continuo (lavoro anche di sabato e di domenica).
Il diritto di sciopero è un diritto essenziale per rendere efficace l’azione collettiva sindacale.
“I diritti parlano, sono lo specchio e la misura dell’ingiustizia, e uno strumento per combatterla”. [Stefano Rodotà]
Nella Relazione sull’attività della Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, presieduta dal Prof. Giuseppe Santoro Passarelli, lo scorso 22 giugno, si afferma che “a fronte di un buon livello di rispetto delle regole, si è, comunque, di fronte ad una conflittualità fisiologicamente elevata e non paragonabile a quella di altri paesi europei di comprovata democrazia sindacale”.
Qui il video della presentazione della Relazione sull’attività della Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, presieduta dal Prof. Giuseppe Santoro Passarelli.
In realtà, gli ordinamenti collettivi europei del lavoro sono estremamente eterogenei.
Le differenze possono riguardare:
- il tipo ed il grado di sindacalizzazione: movimenti sindacali forti ci sono in Belgio ed in Svezia, situazioni più deboli e con spaccature all’interno in Francia, Spagna e Portogallo, situazione da ricostruire nei Paesi dell’Est dopo la caduta dei regimi dittatoriali;
- la struttura ed i contenuti della contrattazione collettiva: la struttura della contrattazione collettiva basata sul contratto nazionale di categoria è la più diffusa (ad eccezione del forte decentramento tipico del sistema britannico), mentre resta marginale nella maggior parte dei Paesi mediterranei ad eccezione dell’Italia;
- le dimensioni del conflitto (durata, intensità, partecipazione): Germania e Francia hanno equilibri più stabili e duraturi, in Italia al contrario il rapporto conflittuale è la prassi;
- le forme e gli ambiti della partecipazione.
Anche per quanto riguarda il riconoscimento e la tutela di alcuni principali istituti del diritto sindacale le differenze sono evidenti.
Con particolare riferimento allo sciopero, è riconosciuto come diritto soggettivo (individuale ad esercizio collettivo) in Francia, Italia, Spagna, mentre in Germania ed in Gran Bretagna è considerato una immunità, cioè una semplice “libertà”, non un vero e proprio diritto, ed è riservato all’organizzazione sindacale.
Una piccola menzione anche per quanto riguarda la serrata. Si tratta di un diritto escluso nella maggior parte dei Paesi europei (Italia, Spagna, Francia) ma protetto per certi versi in altri (Germania), ed è stato equiparato dalla carta di Nizza allo sciopero. L’art. 28 stabilisce, infatti, che i datori di lavoro ed i lavoratori sono equiparati quanto ad azioni collettive per la difesa dei propri interessi. Si assume così come irrilevante la diseguaglianza economica e sociale tra le parti del rapporto di lavoro e si sancisce, al pari del diritto di sciopero, il diritto di serrata.
Ci sono ordinamenti, come anche quello italiano, che pongono in capo al giudice l’obbligo di verificare le condizioni di legittimità delle azioni collettive (ad esempio in caso di sciopero) ma in ragione della tutela di beni essenziali della persona o dell’ordinamento (ordine pubblico). Non sempre però è così, almeno non in Europa.
Vi ricordate le famose sentenze Viking (Corte di Giustizia 18 dicembre 2007 causa C-341/05) e Laval (Corte di Giustizia 11 dicembre 2007 causa C-438/05)?
In questi casi, invece, il controllo di legittimità è stato finalizzato alla tutela delle libertà economiche (di stabilimento e di prestazione di servizi). La conseguenza è, evidentemente, un bilanciamento squilibrato.
Nel caso Laval, la decisione della Corte ha portato ad alterare l’assetto di relazioni industriali svedese aprendo la strada alle imprese di Stati a basso costo del lavoro di accedere vantaggiosamente ai mercati dei Paesi più vicini.
La verità è che in Europa, le politiche sociali non trovano ampio spazio.
Si tratta di una scelta diametralmente opposta a quella del costituente italiano, che sancisce una netta separazione tra politica e economia e priva la prima di ogni possibilità di intervento (in funzione equilibratrice) nell’ambito della seconda.
Per essere più precisi, manca nell’ordinamento europeo il riconoscimento del diritto al lavoro.
Infine, quanto ai diritti sociali, il riconoscimento operato dall’art. 34 serve a sottoporre i contenuti e la portata dei diritti sociali ai vincoli congiunturali dell’economia aperta e in libera concorrenza, precludendo in radice non solo il dispiegamento delle garanzie apprestate per soddisfare i bisogni sottesi a questi diritti, ma anche la possibilità che si sviluppi una dialettica tra queste esigenze e le leggi dell’economia. In altre parole i diritti sociali sono declassati a diritti finanziariamente condizionati, cioè ad interessi occasionalmente protetti.
Cosa si potrebbe fare?
- introdurre nel trattato una clausola di immunità dei diritti collettivi dalla possibile incidenza delle libertà economiche;
- determinare standard minimi di tutela dei lavoratori;
- dare pieno riconoscimento giuridico alle azioni di sciopero e contrattazione collettiva.
Fino a quel momento teniamoci stretti i nostri diritti.
Marzo 2017 | News
Non si parla mai abbastanza delle donne, dei loro diritti, delle lotte, delle sconfitte o dei traguardi raggiunti. Ed è invece necessario farlo, se vogliamo focalizzare di nuovo gli obiettivi e capire a che punto siamo del nostro percorso.
Conferenza di Pechino nel 1995: una pietra miliare nel riconoscimento dei diritti umani delle donne. La “Piattaforma d’Azione” è il testo politico più rilevante e tutt’ora più consultato dalle donne e costituisce uno spartiacque nella politica delle donne sul piano internazionale. Si fondava su tre pilastri: genere e differenza, empowerment, mainstreaming. Si prefiggeva di eliminare la “violenza di genere nel lavoro”, anche attraverso l’adozione di una norma internazionale del lavoro. Venti anni dopo, nel 2015, le sindacaliste dell’ITUC, dell’EI e del PSI fanno il punto dell’attuazione della piattaforma di Pechino dichiarando che la maggior parte delle promesse non sono state mantenute: il 70% dei poveri del mondo sono donne, il divario retributivo di genere a livello globale resta quasi il 23%, le donne sono sovrarappresentate nelle mansioni di livello inferiore, scarsamente retribuite, concentrate nel lavoro informale, nel part-time, nel lavoro instabile e precario. New York 2015, 59° sessione della Commissione sullo Status delle donne: viene approvata una dichiarazione troppo debole, formale e poco efficace. Dichiarazione che sembra avulsa dalla realtà e che non tiene conto che nessuno dei tre pilastri dello sviluppo sostenibile (economico, sociale e ambientale) potrà mai realizzarsi senza la piena partecipazione delle donne e senza la completa realizzazione dei loro diritti umani. Uno studio Fondo Monetario Internazionale (2015) quantifica i danni del sessismo nel mondo in 9.000 miliardi di dollari all’anno, a causa di restrizioni legali e della parità di genere ancora lontana da raggiungere. Christine Lagarde, Direttrice del Fondo, parla di una “cospirazione contro le donne per impedire di essere economicamente attive. In un mondo che ha tanto bisogno di crescita le donne possono dare un contributo, se solo hanno di fronte a sé delle pari opportunità, invece di un’insidiosa congiura”.
Nel nostro Paese, sempre secondo lo stesso studio, siamo al sessantaquattresimo posto nella graduatoria del gender gap. Dopo di noi solo Malta e Romania. Il rapporto Istat del 2016 ci consegna un dato di occupazione femminile del 48,1%, ben lontano da quel 60% che era l’obiettivo di Lisbona. Cresce il part-time involontario e aumentano le disuguaglianze salariali.
In questi anni le donne hanno avuto piena consapevolezza della crisi che si stava e che si sta ancora attraversando. Crisi economica e del mondo del lavoro, ma anche della politica e dei governi che spesso non solo non hanno individuato le soluzioni più appropriate, ma hanno anche penalizzato ulteriormente la condizione delle donne.
Consapevolezza e volontà di lottare per un cambiamento dimostrata dalle donne anche mobilitandosi e riempiendo le piazze, dimostrando capacità di decidere e di scegliere. In piazza a supporto dell’equal pay di Obama. In piazza contro Trump Presidente. In Italia, “Se non ora quando”.
E ancora una volta protagoniste con la CGIL, nella prossima assemblea del 28 marzo di Filcams, Flai e FP per sostenere le ragioni della cancellazione dei voucher e della responsabilità solidale negli appalti.
“Chi ha paura di Virginia Woolf” è un dramma teatrale, e il titolo è un gioco di parole che prende lo spunto da una canzoncina di bambini “Chi ha paura del grande lupo cattivo” (Who’s Afraid of the Big Bad Wolf?).
Viene spontaneo dire “Chi ha paura delle donne?” e rompere una volta per tutte il tabù che imperversa nella nostra società. E, citando il nostro Segretario Generale, cominciare invece a “guardare il mondo con gli occhi delle donne”.
Marzo 2017 | News
Responsabilità solidale negli appalti e abrogazione dei voucher: cosa propongono i referendum della CGIL e perché votare sì
Forse troppo spesso qualcuno dimentica che “siamo una repubblica democratica fondata sul lavoro”, o altri dimenticano che ognuno ha diritto al lavoro.
E non un lavoro qualsiasi, ma un lavoro dignitoso, che non calpesta la dignità delle persone, un lavoro che possa rendere le persone libere di vivere la loro vita e di esercitare le proprie scelte.
Utopia? Forse. Ma anche profonda consapevolezza che che ci sia bisogno di un profondo cambiamento. Se vogliamo un’altra Italia dobbiamo liberare il lavoro per poterlo rendere fruibile a tutti e tutte. Senza ricatti, senza cancellare le conquiste fatte in tanti anni di lotte, senza sfruttare la disperazione di chi ha bisogno, senza disintegrare le speranze di chi tenta di costruire la propria vita partendo dal lavoro, senza ricorrere al caporale-schiavista.
Ecco perché per la prima volta la Cgil si è fatta promotrice dei quesiti referendari e a gran voce sta chiedendo al Governo di fissarne la data. E’ in atto una campagna capillare a livello territoriale con numerose iniziative. Camper e pulman che piazza per piazza spiegano alle persone i motivi dei referendum e perché sarà importante votare “Si”. Dal 20 marzo ci saranno spot sugli autobus, in varie Regioni circola “L’Ape del Lavoro”. Fino ad arrivare ad una grande manifestazione nazionale programmata per l’8 aprile.
Partire dai voucher e dagli appalti non è stato casuale, bensì si è trattato di scegliere i punti più bassi della progressiva perdita di valore del lavoro che tra l’altro coinvolgono un enorme parte del mondo del lavoro. Intere generazioni hanno come unica prospettiva un voucher, o l’inferno di una catena di appalti e subappalti. Non può rappresentare l’unica alternativa fare la valigia e tentare la fortuna all’estero. La situazione va cambiata radicalmente qui ed ora, se vogliamo un futuro diverso e un’Italia diversa.
Con il referendum si chiede di ripristinare il principio di responsabilità solidale inderogabile e piena a carico del committente nell’ambito di opere o servizi, abrogando l’art.29, secondo comma del dlgs 276 del 2003. Si verrebbe quindi ad abrogare la derogabilità della responsabilità solidale riportandola in capo al committente, e cioè al soggetto che sceglie l’appaltatore, da un lato, e che beneficia della prestazione lavorativa dei dipendenti dall’altro. Inoltre, abrogando la norma, i lavoratori potrebbero recuperare i propri crediti direttamente e velocemente dal committente, qualora si instaurasse un iter processuale per mancata erogazioni di salario o altre voci contrattuali. Troppo spesso la cosiddetta “filiera dell’appalto” é un vero gioco di “scatole cinesi” dove l’anello più debole della catena è il lavoratore. Appalti al massimo ribasso, esternalizzazioni fatte per risparmiare e abbattere il costo del lavoro, ditte o cooperative che prendono l’appalto e poi svaniscono nel nulla, condizioni di lavoro con disparità contrattuali, evasioni contrattuali, non rispetto della sicurezza e spesso al di fuori della legalità. Il committente non può non assumersi le responsabilità in solido delle scelte attuate e risponderne ai lavoratori. Per farlo bisogna votare “Si”.
Per quanto riguarda i voucher, il referendum ne chiede la cancellazione. Il 28 febbraio u.s., l’Inca Cgil ha presentato un dossier utilizzando alcuni dati INPS. Solo nel 2015, tra i 750.000 lavoratori attivi (coloro che hanno una posizione assicurativa già aperta, alimentata anche da prestazioni di sostegno al reddito per disoccupazione) le donne pagate esclusivamente con i voucher sono oltre la metà e hanno in media 35 anni. I disoccupati di lunga durata, i “silenti” secondo l’Inps, sono 300.000 con storie lavorative anche consistenti alle spalle. Nel 2015 hanno percepito solo voucher. Di loro oltre la metà sono donne. Infine, i percettori di voucher che non risultano iscritti a nessuna gestione previdenziale, sono in tutto 200.000 nel 2015 (sei volte di più di quelli registrati nel 2010). Si tratta di lavoratori sempre più giovani, con un’incidenza delle donne del 58%. Con il voucher si evadono completamente tutte le norme contrattuali e di legge che tutelano i lavoratori: la giusta retribuzione, l’orario, le ferie, la malattia, la maternità, l’indennità il sostegno al reddito (basti pensare nel settore agricolo al diritto alla disoccupazione agricola). Le ricadute previdenziali sono allarmanti. Nelle Marche, la Regione che registra nel 2015 circa 64.000 persone retribuite con i voucher, il reddito medio annuo di questi lavoratori è stato di circa 480 euro, in linea con la media nazionale. Se un lavoratore con le stesse condizioni di reddito raggiunge il tetto massimo fissato per i voucher di 7.000 euro annui, a 70 anni, con 5 di anzianità contributiva, avrà una pensione mensile di 208 euro. Per queste ragioni non è pensabile che bastino alcune modifiche per l’impiego dei voucher. L’uso del voucher va abrogato. Per farlo bisogna votare “Si”.
Le regole democratiche sono il baluardo di una società civile. I referendum della Cgil sono stati riconosciuti “ammissibili”. Il Governo fissi la data del voto in modo da consentire ai cittadini di questo Paese di potersi esprimere. Noi lo faremo, sicuri di incontrarti e di votare insieme il “Si” per contribuire ad un futuro diverso e migliore.
Marzo 2017 | News
Lo scorso 28 febbraio, presso il Dipartimento di Agraria dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, si è tenuto il seminario “Il lavoro in agricoltura: peculiarità, problematiche e potenzialità per una crescita moderna del settore primario”.
Gli interventi hanno realizzato un’analisi del mercato del lavoro in agricoltura, con particolare riferimento alle caratteristiche quantitative e qualitative. Questi, in sintesi, i dati più rilevanti:
- 1.490.547 occupati in agricoltura tra dipendenti e indipendenti;
- il 23% degli occupati è irregolare;
- l’Italia è il terzo Paese europeo (8,7% degli occupati agricoli in Europa) dopo Romania e Polonia;
- 131.000 occupati sono migranti (12,6% sul totale).
Inoltre, si è proceduto a esplorare le potenzialità della bilateralità come strumento a sostegno dell’agricoltura moderna.
Infine, l’INAPP ha presentato il Nuovo Atlante delle professioni approfondendo il contributo che questo strumento può dare alla descrizione delle professionalità del settore agricolo.
Leggi le slides per maggiori approfondimenti:
Il lavoro in agricoltura: dimensioni peculiarita contrattazione.pdf
Locandina_Portici-28-febbraio-2017.pdf
Febbraio 2017 | News
Evoluzione strutturale ed occupazionale della pesca nel Mediterraneo
di Massimiliano D’Alessio
Nel Mar Mediterraneo le attività di pesca hanno un valore culturale, economico e sociale importantissimo. Un recente parere del Parlamento Europeo[1] ci ricorda infatti «che 250.000 persone sono direttamente impiegate a bordo di imbarcazioni e che il numero di persone impiegate nel settore ittico per la loro sopravvivenza aumenta esponenzialmente se consideriamo le famiglie che vivono grazie al supporto della pesca regionale e che sono impiegate nell’indotto, come la trasformazione e la manutenzione delle imbarcazioni e il turismo».
Il settore ittico nel Mediterraneo riveste inoltre una rilevanza particolare soprattutto per quelle regioni periferiche marittime dove la pesca rappresenta spesso l’unica attività economica possibile. Sempre secondo il Parlamento Europeo, infatti, «il 60% dei lavori legati alla pesca si trova in Paesi in via di sviluppo del Sud e dell’Est del Mediterraneo, mostrando quale sia il ruolo della piccola pesca nello sviluppo sostenibile di quelle regioni e, in particolare, delle comunità costiere più vulnerabili».
Negli ultimi anni le riforme che in Europa hanno riguardato la Politica Comune della Pesca sono state finalizzate sugli obiettivi prioritari della protezione, della conservazione e del risanamento delle risorse ittiche e degli ecosistemi[2]. Secondo il legislatore europeo la dimensione ambientale della sostenibilità è, infatti, ritenuta oggi essenziale per il raggiungimento di quella sociale ed economica. D’altro canto, quanto meno nel breve termine, gli obiettivi ecologici appaiono fortemente in conflitto con quelli socio economici. Appare quindi opportuno valutare in maniera approfondita gli effetti della riforma della PCP sulle condizioni di vita degli operatori del settore ittico e, soprattutto, sulle opportunità occupazionali che le attività di pesca sono ancora in grado di offrire nel Mediterraneo.
Già sul piano strutturale le evoluzioni nella PCP hanno determinato un ridimensionamento del settore. La flotta da pesca mediterranea[3] iscritta nell’Archivio Licenze di Pesca a dicembre 2014 risulta, infatti, composta da 51.460 battelli di cui 45.139 operativi. L’analisi in termini di tipologia di attività svolta evidenzia che la flotta mediterranea è composta in prevalenza da battelli di piccola pesca. Sono, infatti, 31.944 le imbarcazioni di lunghezza fuori tutto inferiore a 12 metri attive nel Mediterraneo. Nel periodo 2008-2014 nel complesso dei Paesi del Mediterraneo[4] si osserva una riduzione del -14% nella numerosità delle imbarcazioni da pesca. Le imbarcazioni iscritte nell’Archivio Licenze di Pesca nell’area del Mediterraneo passano infatti dalle 54.711 unità del 2008 alle 47.075 del 2014. Una riduzione simile si rileva anche considerando il solo sottoinsieme dei battelli operativi. In particolare nel periodo 2008-2014 nei paesi del Mediterraneo si osserva una riduzione del -11% nella numerosità delle imbarcazioni da pesca operative. Le imbarcazioni operative nell’area del Mediterraneo passano infatti dalle 47.584 unità del 2008 alle 42.423 del 2014. La flessione nella numerosità dei battelli riguardi tutti i principali paesi del Mediterraneo. In particolare la Grecia, con una flessione del -14% (-19% per la piccola pesca), è il paese mediterraneo che registra la maggiore flessione nella numerosità dei battelli da pesca. Un ridimensionamento nella flotta da pesca si registra anche in Francia (-13%), in Spagna (-11%), Italia (-6%) e Croazia (-3%). Andamenti in controtendenza si registrano invece per Cipro (+10%), Slovenia (7%) e Malta (1%).
La figura permette di analizzare l’andamento dell’occupazione del settore della pesca nei Paesi del Mediterraneo nel periodo 2008-2014. Come si può osservare la numerosità dei lavoratori della pesca nel Mediterraneo ha registrato con riguardo all’intero periodo una diminuzione complessiva dell’8%. Un’analisi più approfondita permette di osservare che l’andamento dell’occupazione è stato caratterizzato dapprima da un trend crescente che conduce al valore massimo di 82.229 occupati. A partire dal 2010 si evidenzia un’inversione del trend che conduce ad un valore minimo nel 2013 di 72.794 lavoratori occupati nel settore della pesca del Mediterraneo.
La flessione nella numerosità degli occupati nel settore della pesca riguarda tutti i principali Paesi del Mediterraneo. In particolare la Grecia, con una flessione del -19% (-5% per la piccola pesca), è il Paese mediterraneo che registra la maggiore flessione nella numerosità degli occupati nel settore della pesca. Un ridimensionamento occupazionale si registra anche in Italia (-12%), in Francia (-11%) e in Spagna (-11%). Andamenti in controtendenza si registrano invece per Croazia (+43%), Malta (+28%), Slovenia (+13%) e Cipro (+10%).
I dati esposti in precedenza evidenziano il processo di declino socio-economico che caratterizza il settore della pesca nel Mediterraneo. Appare evidente la necessità di introdurre al più presto dei correttivi che invertano il trend occupazionale negativo garantendo la salvaguardia e la prosecuzione delle attività di pesca. In questo senso una effettiva attuazione dovrà essere garantita alla regionalizzazione degli strumenti della nuova PCP per garantire interventi e politiche che tengano effettivamente conto delle specifiche peculiarità ed esigenze che caratterizzano le attività di pesca nel Mediterraneo.
[1] http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?type=COMPARL&reference=PE-595.446&format=PDF&language=IT&secondRef=01
[2] Nella comunicazione “Consultazione sulle possibilità̀ di pesca per il 2017 nell’ambito della politica comune della pesca” (COM(2016)0396), la Commissione sostiene che nel Mediterraneo l’eccesso di pesca resta predominante e urgono rimedi per rovesciare questa situazione. Nello stesso documento la Commissione esprime preoccupazione perché́ molte delle specie oggetto di valutazione sono pescate ben al di sopra delle stime obiettivo del rendimento massimo sostenibile (MSY).
[3] L’area di analisi è composta da Cipro, Croazia, Francia, Italia, Grecia, Malta, Slovenia e Spagna.
[4] In questo insieme non è compresa la Croazia per cui sono disponibili dati solo a partire dal 2012.
Febbraio 2017 | News
A novembre 2015 è stato finanziato il progetto “Food industry sector towards the Europe 2020 Strategy: to promote an empowerment of EWC’s members of Campofrio and Conserve Italia European Works Councils”, dalla DG Occupazione, Affari Sociali e inclusione della Commissione Europea con la partecipazione della FLAI CGIL, Federazione Lavoratori dell’Agroindustria (capofila), di Fondazione Metes, (partner), di Federaciòn Agroalimentaria de Comisiones Obreras (CO-APPLICANT) e con il supporto di Campofrìo Food Group, Conserve Italia, FIDTA, FAI CISL, UILA UIL e EFFAT.
I destinatari del progetto sono stati i rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori dei Comitati Aziendali Europei di Conserve Italia e Campofrìo Food Group, con lo scopo di far acquisire loro maggiore conoscenza e consapevolezza sulle criticità che riguardano l’industria alimentare europea, con riferimento alla strategia Europa 2020, e sui contenuti del diritto comunitario in materia di coinvolgimento transnazionale dei lavoratori.
La riunione di avvio del progetto si è svolta il 24 febbraio 2016 a Roma, presso la FLAI CGIL, alla quale hanno partecipato i partner del progetto e i rappresentanti delle due aziende coinvolte.
Il 7 marzo 2016 è stata attivata una piattaforma web per la formazione a distanza che prevede un corso di formazione, con una durata complessiva di 40 ore, suddiviso in 6 moduli tradotti in 6 lingue: italiano, inglese, spagnolo, olandese, portoghese e francese. Alla formazione, hanno partecipato anche rappresentanti di altri CAE del settore agroalimentare e anche di settore diversi (commercio, ristorazione, grande distribuzione).
Il corso di formazione per delegati CAE è una vera e propria cassetta degli attrezzi per tutti coloro che, passo dopo passo, iniziano a svolgere l’attività all’interno dei CAE. Un pacchetto completo che, attraverso l’utilizzo di slides in power point schematiche e di immediata comprensione, fornisce con esattezza tutte le informazioni necessarie. Questi gli argomenti:
- Le fonti normative in materia di CAE
- Le strutture organizzative dell’impresa
- Le relazioni sindacali a livello europeo
- Meccanismi di funzionamento dei CAE
- I ruoli all’interno dei CAE
- I dati economici e finanziari
Il 12 e 13 luglio 2016 si è svolto a San Lazzaro di Savena (BO), presso la sede di Conserve Italia Soc. Coop., il seminario internazionale dedicato al progetto. In particolare, il seminario ha rappresentato un’importante occasione per lo scambio di esperienze sulle principali criticità relative all’attività dei CAE.
Il 15 ottobre 2016 si è conclusa l’attività formativa FAD e nell’evaluation meeting del 22 novembre 2016 sono stati esposti i risultati del piano di monitoraggio e valutazione, evidenziando i punti di forza e le criticità emerse durante lo svolgimento delle diverse attività progettuali. A questa fase finale hanno partecipato tutti i partner del progetto: FLAI CGIL, Fondazione Metes, INDUSTRIA CCOO (ex FEAGRA) e i rappresentanti delle due imprese beneficiarie coinvolte.
Dall’analisi dei dati è emersa la corretta realizzazione di tutte le attività programmate con i relativi obiettivi raggiunti. I partecipanti che hanno portato a termine il corso di formazione sono stati 47, in maggioranza italiani e spagnoli. Le newsletter dedicate al progetto sono state 4 e sono state pubblicate in italiano, spagnolo ed inglese. Tutto il materiale formativo sviluppato nell’ambito del progetto, in seguito alle molteplici richieste, è disponibile sulla piattaforma istituzionale Metes per la FAD e-learning. Invia una mail a: posta@fondazionemetes.it per ricevere le credenziali per accedere alla piattaforma.
Per avere un’idea dei contenuti puoi scaricare alcune slide dell’unità 6 relativa agli indicatori economici.
6.-Indicatori-economici.pdf (2042 download )